Venerdi 18 ottobre 2013 il Tribunale militare di Roma ha condannato all’ergastolo in contumacia l’ex soldato nazista Alfred Stork, che faceva parte del plotone di esecuzione che nel 1943 uccise gli ufficiali italiani che erano a capo della Divisione Acqui. C’è da dire che la confessione dell’ex nazista – che all’epoca aveva 20 anni e ora ne ha 90 – è stata considerata inutilizzabile (perchè raccolta senza il difensore), ma nei suoi confronti sono state considerate valide e determinanti le testimonianze dei familiari delle vittime, che hanno inchiodato Stork alla sua responsabilità. Dopo 70 anni dal massacro di migliaia di soldati italiani – rei solo di essersi rifiutati di cedere le armi ai nazisti a seguito dell’armistizio di Badoglio – un militare è stato ritenuto responsabile. Tutti i maggiori responsabili di quell’orrendo massacro (sono stati ammazzati, trucidati e passati per le armi tra i 7 e i 9 mila cittadini italiani) non hanno subito la benchè minima conseguenza penale. Uno scandalo immenso, che fa violenza alla memoria di tanti italiani barbaramente massacrati. Ora, dopo 70 anni, un po’ di giustizia è fatta. Finalmente.

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roberto alborghetti
mio padre
nell’inferno di
cefalonia
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la memoria di un superstite
un massacro impunito
i silenzi e le omertà di stato
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Battista Alborghetti, classe 1923, nativo di Ambivere (Bergamo), a diciannove anni è mandato a combattere con la Divisione “Acqui” sull’isola greca di Cefalonia. Qui, settant’anni fa, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, i tedeschi pretendono la resa dalle truppe italiane. I nostri soldati rifiutano di cedere le armi e compiono – sono le parole del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi – “il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo”.
I comandi militari tedeschi – dietro un ordine impartito da Hitler – si macchiano di “una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato”, come è stato affermato nel Processo di Norimberga per i crimini nazisti. A Cefalonia e Corfù avviene un eccidio di dimensioni spaventose: circa 10 mila i soldati italiani fucilati, massacrati, affondati in mare, bruciati dai militari della Wehrmacht. Se ne salveranno poco più di mille, tra i quali Battista Alborghetti.
Il figlio Roberto, giornalista professionista, autore di saggi e biografie, mette il proprio lavoro di cronista al servizio della memoria di suo padre e ne racconta, nell’inchiesta qui sotto riportata, la vicenda di sopravvissuto. E’ un viaggio nelle pieghe dei ricordi, negli abissi di un massacro impunito e in quelle scelte nefaste che per decenni – complici i silenzi e le omertà di Stato – hanno nascosto negli “armadi della vergogna” della Procura militare di Roma l’olocausto di migliaia di giovani italiani.
Pubblichiamo il primo capitolo di questo libro-testimonianza, già adottato come testo in diverse scuole.
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1
Cefalonia.
E’ una parola che mi ha inseguito fin da bambino. Me ne parlava spesso mio padre, come se ne può parlare ad un piccolo. Racconti un po’ vaghi, forse con qualche sfumatura avventurosa, tanto per carpire l’attenzione di un pargolo, che comunque desiderava sapere e conoscere, cosa avesse mai fatto suo padre, a Cefalonia.
Capivo però che quella parola era scomoda, collegata ad un luogo dell’infelicità umana. Qualcosa che sfuggiva alla mente di un bimbo, perché parlare di guerra, battaglie e scontri armati era come riferirsi ad una dimensione lontana, staccata dalla realtà quotidiana, come lo erano le immagini diffuse dalla televisione o viste sullo schermo di un cinematografo.
Man mano crescevo negli anni, i contorni ed i significati di quel termine – Cefalonia – si andarono via via precisando, parallelamente al progressivo passaggio nell’età nella quale le cose si fanno (o dovrebbero farsi) chiare.
Mio padre me ne parlava, un po’ vagamente, ad essere sincero, in coincidenza delle ricorrenze patriottiche nazionali. Innanzitutto quando cadeva il 25 aprile, giornata della Liberazione. Era un modo per dire: “Io c’ero”. Ma anche il 4 novembre, la “Giornata della Vittoria”, la fine della Grande Guerra, che aveva visto suo padre Giovanni, nonché mio nonno, combattere al fronte, meritandosi l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto. E me ne parlava anche quando si recava a partecipare ai periodici raduni dell’Associazione Nazionale Divisione “Acqui”.
Fu al ritorno da uno di questi appuntamenti che mio padre sfilò dalla tasca un opuscolo bianco, su cui spiccava una sorta di freccia: la riproduzione di una mostrina militare, di colore giallo con una banda centrale nera che terminava in una stelletta. Era una pubblicazione dedicata all’inaugurazione a Verona, il 23 ottobre 1966, del Monumento ai Caduti della “Acqui”. Mi incuriosì e volli sfogliarlo subito. Non trovai, tra quelle pagine, il resoconto di quanto avvenne a Cefalonia dopo l’8 settembre del ’43. Era, più che altro, una fotocronaca della cerimonia veronese, alla quale aveva partecipato l’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro. Vi erano riportati saluti ed interventi, per la verità un po’ ostici da capire per un ragazzo che a scuola pur riusciva bene nella lingua italiana…
Io volevo avere notizie, fatti, resoconti. Invece, vi trovavo discorsi molto alti, celebrativi, pure roboanti, che andavano sicuramente bene nella circostanza per cui erano stati pensati, ma non per chi, giovanissimo lettore come me, voleva la narrazione di vicende, che tutti definivano “eroiche”, “gesti supremi”, “offerta di generosità”, “sacrificio indomito”, “mirabile olocausto”. Però, nella seconda parte di quell’opuscoletto – che conservo tuttora – era riportato il discorso ufficiale di padre Luigi Ghilardini, cappellano militare a Cefalonia tra i soldati della “Acqui”. E tra le righe cominciai ad intravedere e percepire la trama tragica e complessa di quelle giornate, il clima drammatico dopo l’armistizio dell’8 settembre, la scelta – difficile, sofferta, combattuta – di non cedere le armi ai tedeschi, gli alleati che un dispaccio dal governo di Roma aveva trasformato in nemici. E poi, quella decisione – di resistere militarmente e di difendere la propria libertà – presa dal generale Antonio Gandin dopo una consultazione dei reparti militari: una procedura inusuale, al di là degli usi e delle convenzioni delle forze armate, che non ha precedenti nella storia militare contemporanea. E infine gli “abissi dell’aberrazione umana”: il massacro, il martirio, lo strazio ed il sangue di migliaia di soldati italiani.
Più tardi, mi venne tra le mani un’altra pubblicazione di padre Ghilardini, “Sull’arma si cade, ma non si cede”: uno squarcio impressionante su quello che è considerato come l’episodio “più terrificante e più glorioso” della seconda guerra mondiale combattuta dagli italiani. Un libro scritto “in presa diretta” da chi fu tra i testimoni di due anni di odio e di sangue. Un diario crudo della resistenza della Divisione Fanteria da montagna “Acqui” e della Marina e della reazione dei Comandi tedeschi, cui venne dato il seguente ordine: “a Cefalonia non venga fatto alcun prigioniero italiano a causa dell’insolente e proditorio contegno da essi tenuto… Tutti gli italiani che oppongono resistenza siano fucilati durante il combattimento”.
Cefalonia prese corpo e forma, nella mia mente. Come fosse un fantasma. Uno spettro. Un incubo. Una realtà dell’orrore e della follia degli uomini. Mio padre “visse” Cefalonia. Fu in quell’inferno. Dal novembre 1942 al novembre del 1944. Portava le mostrine della Divisione Acqui, come gli altri 11 mila soldati italiani mandati a presidiare l’isola ionica. Scaraventati contro un tragico destino. Abbandonati e dimenticati, prima, durante e dopo l’8 settembre. Massacrati, feriti, imprigionati e deportati. Una tragedia italiana, accaduta esattamente settant’anni fa. Ma anche una vicenda europea. Una storia di piccoli grandi eroi, che preferirono cadere piuttosto che cedere. Difendendo l’onore, l’appartenenza al popolo italiano, le proprie radici, la propria casa, le proprie famiglie. Difendendo un’idea di Stato e di Patria.
Mio padre Battista, classe di ferro 1923 (è nato il 27 marzo di quell’anno) ha vissuto, ed è sopravvissuto, a Cefalonia. Un superstite quasi per miracolo, visto che più di una volta vide passare davanti a sè la morte. Venne anche ferito. Fu fatto prigioniero e finì pure in isolamento. E da provetto artificiere collaborò nel “sabotare” il progetto dei nazisti di far saltare in aria, letteralmente, Argostoli e dintorni dopo che la Wehrmacht aveva deciso di lasciare l’isola. E’ la prima volta che ne scrivo. E l’unico imbarazzo che provo, nel farlo, è che ciò mi costringe ad occuparmi di un fatto personale e familiare. Non ho mai raccontato la Cefalonia di mio padre. Ma avrei rischiato di pentirmene se, prima a poi, non avessi affidato a dei fogli di carta, le vicende di una storia che mi appartiene. E che ci appartiene, come italiani, come europei.
Anche la storia di mio padre, come quella dei suoi compagni di armi, può servire ad illuminare una vicenda sulla quale, per decenni, piombò una cappa di silenzio. Quei morti, quei massacri, davano fastidio. Come l’eroismo di quegli umili. Come la loro capacità di scegliere. Come la loro libertà di lottare. Al di là ed oltre il fenomeno della Resistenza, che essi di fatto anticiparono in quella sperduta isola greca, come una scelta di libertà e di giustizia, contro tutte le sopraffazioni. Laggiù c’erano 11.600 italiani; altri 4.970 erano di stanza nelle vicine isole di Corfù, Zante ed Itaca. Dopo l’8 settembre 1943, ne vennero trucidati 10.500. Un crimine. Un martirio. Una storia senza fine.
Ho lasciato che mio padre si raccontasse in libertà, senza una scaletta prestabilita. La sua è una narrazione lineare, trasparente, di un soldato il quale, in quei drammatici momenti, non tentava di captare le strategie di una politica militare o governativa, o le coordinate internazionali di un conflitto bellico, o di interpretare chissà quale dinamica nel “confronto con il nemico”, ma si metteva in gioco, con la propria vita, per una scelta e per un sogno di libertà, perché così “doveva essere”. Ho voluto che la sua testimonianza, registrata su nastro, avvenisse alla presenza di mia figlia, Alizée. Un racconto tra nonno e nipote: la trasmissione di un seme di memoria, per non dimenticare.
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